Carso: small is beautiful. 5 cose da sapere

Il titolo di questo articolo riproduce l’immagine di un’area, quella del Carso, che è già piccola di suo. Stretto tra frontiere e porta tra mondi, il perimetro all’interno del quale ci muoviamo è un fazzoletto di terra che per i suoi quasi 500 chilometri quadrati in Italia  (il Carso in Slovenia è circa altrettanto), è lo stesso di qualche municipio di Roma. Il motto “piccolo è bello” si adatta a questo frammento di pianeta,  incastonato tra la fine del mare Adriatico e l’inizio delle steppe euro-asiatiche. Nota bene: proprio in virtù del loro essere “piccoli”, questi microcosmi vivono un equilibrio fragilissimo e per questo motivo le modalità con cui si affrontano e si visitano deve rispondere a sensibilità e rispetto fuori dal comune.

1. L’elemento acqua: le “jazere”, gli stagni e i lavatoi

La neve ed il ghiaccio un tempo erano fondamentali. Lungo tutto il territorio carsico si trovano ancora oggi delle particolari “cisterne” realizzate in muratura e scavate nel terreno che in passato venivano utilizzate per contenere il ghiaccio. Elemento imprescindibile per conservare gli alimenti, il ghiaccio serviva soprattutto ai residenti del Carso che preservavano queste strutture alla stregua di antichi frigoriferi. Celebri sono quelle di Draga (o Draga Sant’Elia, in italiano), a due passi dalla val Rosandra e che proprio per il loro stato di conservazione, venivano visitate da frotte di studenti triestini accompagnati sul Carso affinché la loro memoria non andasse perduta.

Sul fronte dell’acqua in Carso – così scarsa e quindi così preziosa – alcuni eccezionali microcosmi sono rappresentati dagli stagni (kal, in sloveno). Da quello di Banne (Bani), fino alle strutture di Repen, Sagrado Conconello o Basovizza, gli stagni rappresentano un vero e proprio habitat per numerose specie autoctone minacciate dalla cattiva abitudine di “liberare” tartarughe, il comune “pesce rosso” (il Carassius auratus) o addirittura esemplari di luccio nello specchio d’acqua. All’interno di essi, infatti, vivono e si riproducono specie come il tritone, il rospo e molti altri, solo per citare i due esempi forse più famosi.

È un ecosistema dall’equilibrio fragilissimo che va osservato e non messo a repentaglio. Chi da anni si occupa della loro conservazione e mantenimento è l’associazione dei Tutori Stagni, volontari ma professionisti del settore impegnati a conservare le particolarità di queste strutture così preziose dal punto di vista ambientale. Altrettanto importanti, infine, sono i corsi d’acqua che dall’altopiano precipitano a valle in direzione della città. La zona del torrente Settefontane, come pure quella del rio Farneto, dei “patok” muggesani o di quelli che da Lajneri e Pis’cianzi scendono verso i rioni di Roiano e Gretta, sono da considerarsi gli ultimi baluardi di un territorio scomparso dalle mappe contemporanee. Proprio lì, conservati più o meno bene, sopravvivono i lavatoi un tempo utilizzati dalle donne per fare il “bucato” (detta la “lissia” in dialetto triestino). Le lavandaie provenivano sempre da famiglie povere e residenti in periferie e sul Carso: lavavano i panni sporchi della borghesia cittadina, in un certo senso, ripulendo le macchie dell’urbe e a sottolineare ancora una volta il rapporto tra il centro e tutto ciò che lo circonda.

2. I cimiteri del Carso: c’è vita dopo la morte

Alcune lapidi affondano le proprie radici in un passato a volte così distante da non essere neanche lontanamente immaginabile. Sono i campisanti del Carso, quelli dove i visitatori che provengono da fuori debbono avvertire la necessità di metterci piedi per poter comprendere a fondo la presenza slovena sul territorio. All’interno di essi, infatti, i cognomi che si possono leggere sulle tombe nella maggior parte chiariscono una fonetica slava. Questi piccoli cimiteri si trovano un po’ dappertutto, da Malchina fino alle alture muggesane, passando per la zona orientale dell’altopiano. Alcuni di loro, come quello incastonato su un colle di Cattinara, sono dei veri e propri monumenti all’arte funeraria e alla relazione che la popolazione ha prodotto con essi. Quello di Cattinara, ad esempio, può ospitare solamente residenti della zona dell’omonimo rione, di Longera e Sottolongera e basta. Altri esempi meritevoli di menzione sono quelli di Samatorza (dove riposa anche la salma di un soldato polacco morto durante la Grande guerra), Santa Croce, Opicina, Padriciano e Basovizza. Leggere i nomi delle persone passate a miglior vita può restituire al visitatore l’immagine di un territorio plurale nelle forme linguistiche, culturali e sociali e, finalmente, far sì che chi arriva da fuori non debba sorprendersi nel sentire una parlata presente sul Carso da sempre.

Tra i cimiteri e i luoghi di culto si sa, esiste un rapporto molto stretto. Uno degli elementi meno conosciuti e meritevoli di menzione è quello rappresentato da un minuscolo museo sito nella casa parrocchiale di Ricmanje/San Giuseppe della Chiusa. Davanti all’enorme chiesa di questo borgo a metà tra il Carso ed il Breg (il versante che precipita verso la zona a sud di Trieste fino a Dolina), esiste questo luogo che raccoglie e testimonia le vicende del passato. Tra arnesi e curiosità legate alla vita rurale, all’interno della casa parrocchiale è conservato un dipinto che racconta la rivolta dei paesani avvenuta durante una delle occupazioni napoleoniche della zona. Uno spaccato di vita testimoniato da un quadro “nascosto” in un edificio dal carattere più che suggestivo: per raccontare la Storia di questi luoghi ed incuriosire i visitatori, anche la mano di un pittore può diventare uno strumento utile.

3. L’esodo: una goccia d’Istria in un mare carsico  

Assomigliano a dei veri e propri borghi in miniatura creati in virtù della più complessa vicenda del confine orientale. Si tratta degli insediamenti di esuli istriani in Carso, piccole enclave che nel secondo dopoguerra finirono per popolare alcune aree carsiche tradizionalmente abitate da sloveni. In un primo tempo questa decisione creò attriti e contrapposizioni, in un ambiente che a livello generale tendeva a considerare tutti gli esuli vicini ad ambienti di destra (cosa distante dalla realtà) e a definire “rosse” le popolazioni delle località carsiche (generalizzazione altrettanto controversa).

Questi luoghi si notano nell’architettura degli edifici, così diversi dalle case in pietra costruite nei secoli e così tremendamente moderne. La zona nord-ovest del paese di Križ (Santa Croce) vide l’insediamento di molte famiglie di esuli provenienti dall’Istria, come pure il borgo chiamato San Nazario (dal patrono di Capodistria), costruito nei pressi di Prosecco, o borgo San Mauro, realizzato nel territorio di Duino Aurisina/Devin Nabrežina. Sono località particolari e che bene raccontano di ciò che accadde non molto tempo fa. La decisione rimescolò le carte e creò figli e nipoti di esuli nati e cresciuti sul Carso. L’ennesima spirale culturale bisognosa di comprensione e di analisi più approfondite di quanto non scatenino le ideologiche propagande.

4. Le alture: gli Everest di casa nostra e i castellieri

Si chiamano Lanaro (Volnik in sloveno, cioè “luogo della lana”), San Leonardo, Orsario, Coste, Cocusso, Carso e Stena. Sono le “vette” di casa nostra, colline che delle montagne possiedono solo l’ambizione ma che per i residenti rappresentano gli Everest nostrani. Sono la catena che dalla zona del monte Hermada corre in direzione del confine di Pesek e separa geograficamente l’Italia dalla Slovenia. Sono un confine nel confine, per certi versi. Sulla loro sommità – dalla quale si può godere di splendidi tramonti estivi, ma anche invernali – si trovano punti di osservazione, ruderi di antiche chiesette di campagna o ristori agrituristici che assomigliano, in tutto e per tutto, a veri e propri rifugi di montagna. Per raggiungerli occorre percorrere i sentieri indicati dai segnavia “firmati” CAI. In alcuni casi sono parte di riserve naturali protette dalla legge. Non sarà l’Himalaya, ma per chi vive il Carso (come pure gli alpinisti della grande scuola triestina) essi rappresentano quelle cime da “scalare” quando si ha qualche ora libera.

Inoltre, molte alture carsiche possiedono i resti della cosiddetta civiltà dei castellieri, vere e proprie fortificazioni a più cinte murarie dove all’interno vivevano le antiche tribù che popolavano la zona. Il più celebre e meglio conservato, è con ogni probabilità quello di Slivia.

5. Piccoli sforzi

Tra le cose piccole c’è sicuramente lo sforzo richiesto a chi arriva da fuori. In un primo periodo tutto sembrerà aggrovigliato e vittima di un marea difficilmente arginabile. Sul Carso e sulla frontiera in generale ci vuole tempo: tempo per avvicinarsi alle storie, alle particolarità, al selvatico narcisismo che caratterizza le residenze di confine, a quella naturale diffidenza innescata dall’essere stati centro del mondo per diversi secoli e, improvvisamente, essere diventati, usando un’espressione colorita, “periferia dell’Impero”.  Ci sono migliaia di storie da raccontare, come pure innumerevoli vicende che aspettano solo di essere scoperte. Il piccolo sforzo richiesto ai visitatori è proprio questo: abbiate pazienza, questa terra apprezzerà e vi tratterà come figli suoi.

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