L’aggettivo selvatico affonda le sue radici nella selva latina, i boschi impenetrabili al cui cospetto anche la magnificenza di Roma si trasformava in timore ed incertezza. Il Carso alle spalle della città di Trieste ha conservato, nonostante tentativi di modernizzazione anche qui succedutisi nel corso degli ultimi secoli, quel carattere spiccatamente oscuro e misterioso tipico dei boschi difficili da domare e delle sue varianti sociali. La capacità di agganciare e vivere esperienze che si rifanno proprio ad una malcelata diffidenza – e quindi di per sé difficili da scovare – è vivida rappresentazione del consolidamento del rapporto con questo territorio. L’esperienza selvatica ha infatti bisogno di tempo e non può trovare conferma esclusivamente in una lista di cose da fare, posti da visitare o persone da ascoltare.
In questo articolo abbiamo provato infine ad elencare cinque esperienze da assaporare, lasciando che sia lo stesso visitatore a concedere tempo al Carso e non viceversa. Quest’area non è al servizio del “mordi e fuggi”, né di chi pretende tutto e subito.
L’asparago, la santoreggia e la rosa canina
Tiriamo in ballo tre elementi naturali presenti sul Carso e che i residenti più curiosi ed attenti solitamente raccolgono, trasformano e consumano. I boschi ed i ciglioni carsici, dalla val Rosandra alle foci del fiume sotterraneo chiamato Timavo, si vestono di Mediterraneo e regalano epifanie lontane, per certi versi greche o perfino mediorientali. La santoreggia è solamente una delle erbe aromatiche da poter cogliere in determinate stagioni dell’anno e, chiaramente, tenendo bene a mente le normative che ne regolano la raccolta in quelle zone “libere” dai limiti che le riserve naturali impongono.
L’essiccazione dei suoi fragili rametti (o ancora freschi, de gustibus) e la loro conservazione in un vasetto, consente di catturare e diffondere l’aroma che conclude la sua esistenza in piatti della tradizione locale. Mischiarla infine al sale o ad altre aromatiche tipicamente carsiche, può regalare un mix di spezie dal sapore suggestivo ma che, d’altro canto, profuma quest’angolo di Adriatico neanche ci si trovasse a Rodi, sull’isola di Carloforte in Sardegna o da qualche parte sulle coste settentrionali del Marocco.
Dalla rosa canina – sì, selvatica – si può ottenere una marmellata dolciastra e decisamente particolare. La difficoltà sta non tanto nella raccolta delle bacche infuocate, bensì dalla rimozione dei suoi semi e della “barbetta” che si portano dietro. In qualche supermercato la si può trovare, ma non ha nessun legame con la soddisfazione di prodursela in casa. Anche in questo caso bisogna però fare attenzione alla possibilità di raccoglierla. Non dappertutto vige la stessa regola.
Infine, gli asparagi, chiamati bruscandoli, “sparisi” nella versione dialettale italiana o “špargelji” in sloveno, sono rappresentazione della fioritura della primavera e della nuova vita che emerge con forza dopo i mesi invernali. Nel periodo di marzo si trovano a bizzeffe e nei negozi di ortofrutta, vengono venduti a peso d’oro, visto il loro mercato e l’abitudine di mischiarli alle uova, alla pancetta, o cucinarli assieme a della pasta fatta in casa; sono amari e l’arbusto da dove nascono è pungente ed allo stesso tempo tagliente. Inoltre, prediligono le zone impervie tra il Carso e l’Adriatico. Andare “per asparagi” può essere selvatico e bisogna scegliere il periodo giusto. L’unica cosa che si piega, in questo caso, è la schiena degli uomini e delle donne che decidono di raccoglierli.
Andar per castellieri
In tutto il territorio carsico sono presenti da migliaia di anni. Eppure, la maggior parte di chi porta a spasso le proprie curiosità non se ne rende quasi mai conto. Sono i castellieri, antiche fortezze edificate su alture carsiche e che oggi si presentano, nel giudizio dei meno attenti, come banali e noiosi cumuli di pietra bianca. La loro vicenda è antichissima e per molti secoli furono luogo sicuro e rifugio per le popolazioni che vivevano il Carso. Dentro ad una o più cerchie di alte mura, le persone passavano la loro esistenza, riportando le bestie cacciate o accendendo il fuoco per scaldarsi durante i gelidi inverni sferzati dalla Bora.
Di essi oggi rimangono frammenti ed oggetti ritrovati nel corso di operazioni di scavo e finiti in qualche museo triestino, come d’altronde gli studiosi capaci di raccontare per immagini – o nella letteratura locale – la vita di questi giganti di calcare. “Scalare” la cima di quello di Slivia (forse quello più grande e meglio conservato) può infine restituire al visitatore il desiderio di scoprire le storie meno conosciute di questo confine, territorio che anche grazie ai castellieri, riconduce l’anima del turista ad una dimensione liturgica, per certi versi spirituale e sconosciuta. La selva può incutere timore soprattutto perché non se ne conoscono i limiti e questo calcare organizzato può quindi essere preciso di esempio del bisogno di selvatico insito in tutti noi.
Le foibe
Tralasciando volutamente l’aspetto storiografico che le vuole oggetto di commemorazioni ed omaggi ogni 10 febbraio (la memoria delle vittime gettate in queste cavità carsiche durante la Seconda guerra mondiale in una zona che comprende il Carso e l’Istria), le foibe sono voragini naturali che si aprono sul terreno ed inghiottono l’oscurità del sottosuolo. Si trovano un po’ dappertutto e non sempre sono state utilizzate dai partigiani per uccidere fascisti, collaborazionisti nazisti o persone innocenti. Le foibe in senso letterale vengono insegnate a scuola anche e soprattutto quando si inizia a studiare, durante le scuole elementari. Qualche gita in giornata diventa quindi il pretesto per visitare, dall’alto, il famoso “pignatòn de Gropada” o altre profonde foibe che, solo quando si cresce e si matura, iniziano a sdoppiare le loro identità. Il Carso selvatico è anche stupirsi di come le parole possano, sul confine, assumere connotazioni diverse a seconda dell’accezione che gli si intende dare. Cercarle per il loro aspetto geologico e per la particolarità del fenomeno naturale può essere d’aiuto, ancorché si voglia approfondire tematiche della storia dimenticata d’Italia.
Sentieri e tracce antiche
Una delle cose selvatiche che si può fare in Carso è perdersi volutamente. Cercando di farlo in maniera consapevole, scegliendo a caso la direzione da seguire sul sentiero, può rivelarsi tremendamente affascinante. Seguire i segnavia biancorossi del CAI permette di non perdersi mai veramente, ma l’improvvisazione che si può riservare alle giornate all’aria aperta è capace di condurvi in qualsiasi posto e, perché no, scoprirne angoli completamente dimenticati.
Trieste selvatica
Anelarle alla selva carsica necessita di studio e ricerca. Per farlo, uno degli strumenti imprescindibili è un libro dal titolo “Trieste selvatica”, opera dello scrittore, viandante e poeta triestino Luigi Nacci, pubblicato qualche anno fa. Le pagine del libro raccontano dei boschi che rimangono alle spalle della città e si sviscerano racconti di un tempo in cui Trieste guardava al Carso e il Carso guardava all’urbe, senza confini ideologici, né barriere fisiche. In un’area vasta che va dalla Ciceria al molo Audace a due passi da piazza Unità – inglobando pezzi d’Istria e agglomerati costruiti sulla microstoria – il selvatico che cerchiamo viene spiegato nei capitoli dell’opera. Ci vuole tempo per leggerlo, ma come già menzionato, per individuare il selvatico di questa terra si deve stabilire una relazione con esso. Senza questo impianto, il Carso scivola e si rifugia in quella scontrosa diffidenza dove neanche le guerre sono state in grado di stanarlo.